Il grande Sergio Endrigo, indimenticabile cantante del secolo scorso che cantava bellissime melodie a cavallo degli anni 60 e 70 nel panorama musicale italiano, ha accompagnato – pur senza saperlo, ovviamente – suo malgrado tantissimi dei pomeriggi e delle serate della mia infanzia ed adolescenza, attraverso il canto di mio padre.
Questi, non appena tornato dalla sua pesante giornata lavorativa (operaio in una segheria di marmo della Versilia, in Toscana), entrava in casa senza dimenticarsi praticamente mai di fischiettare o cantare addirittura qualche canzoncina delle sue preferite.
Probabilmente la serena consapevolezza di avere fatto il proprio dovere di vero uomo - lavorando e sudando sul posto di lavoro e senza minimamente risparmiarsi, anzi – predisponeva il suo stato d' animo gentile a emettere un canto che lo mettesse in armonia ed in comunione con il resto della natura, un po' come un uccellino che canta spensierato sopra il suo ramo preferito. Era mio padre.
A dire il vero, in tutta onestà, questo bel canto veniva d' improvviso a cessare quando mio padre si concedeva uno dei suoi spuntini preferiti, che farebbero inorridire la maggior parte dei gourmet europei: pane e cipolla, con un filo d' olio, rappresentavano per il mio papà una delizia irrinunciabile in attesa della cena: uno spuntino di tutto rispetto.
E, il più delle volte, un ruttone epico di dimensioni spaventose ed inaudite, era la degna conferma di approvazione e soddisfazione di un pasto veloce pienamente goduto e gustato nella sua essenza.
A questo punto, con la pancia piena e con l' intermezzo acustico/gastrico del ruttone di cui sopra, poteva riprendere il canto più tradizionale, ovvero quello che si esercita con le corte vocali (e non più con l' apparato digerente).
Questa sorta di juke-box umano aveva diversi pezzi preferiti nel suo sconfinato repertorio, che andava da Claudio Villa fino a Roberto Murolo, passando per Enzo Jannacci, Nilla Pizzi, Giorgio Consolini e tutti i grandi della musica italiana di quel periodo del secondo dopoguerra.
Una delle voci che ricordo con maggiore frequenza era quella di Sergio Endrigo, che sentivo canticchiare spesso a mio padre, magari mentre preparava le caldarroste sul fuoco del camino.
Quante volte lo avrò sentito canticchiare sottovoce “ Partirààààà.... La nave partirààààà.... Dove se ne andrà, questo non si sa... Sarà come l' arca di Noè... Il cane, il gatto, io e teeeee....”
A modo suo, oltre alla bellezza ed alla musicalità della canzone stessa, anche il mio papà creava a modo suo un' atmosfera irripetibile, questo è sicuro. Uno spettacolo unico.
Quella canzoncina, pur nella sua linearità, parlava alla mia giovane anima in maniera chiara ed inconfondibile con le sue parole: per me, da sempre abituato per vocazione a prestare la massima attenzione alle parole dei testi, fin troppo naturale cercare di coglierne il senso.
E proprio alcune fondamentali parole rimasero scolpite nella mia mente:
“... Che fatica essere uomini...”
Potremmo parlare per ore ed ore delle sfumature di questa frase, dei sensi e delle implicazioni che questa comporta, ma anche senza entrare troppo nel merito, mi voglio limitare a cogliere la serena rassegnazione umana a dovere affrontare la sfida quotidiana di vivere, senza sconti sulle fatiche e sulle pene che comunque costituiscono la vita stessa o, perlomeno, una buona parte fisiologica dell' esistenza. Chi può essersi mai vantato di avere avuto una vita senza qualche problema, grande o piccolo che fosse?
Anche senza possedere la sapienza dei grandi filosofi classici è possibile scavare a fondo alla ricerca del senso stesso della nostra esistenza, e credo che sia una sfida che si rinnovi ogni istante della nostra vita, un po' come la retta geometricamente definita come un insieme di punti infiniti.
La fatica nella vita la troviamo un po' dappertutto, ma forse la maggiore difficoltà la troviamo nel prendere quelle decisioni che proprio scontate non sono, quelle che ti obbligano a pensarci su due volte per via delle conseguenze che comportano.
In questo momento, per ciò che riguarda me, la fatica di essere uomini si presenta sotto la forma della forzata lontananza dalle mie figlie e dalla mia terra di origine, la Toscana.
Chi mi conosce, ben sa delle mie pene. Mi sento come un condannato in esilio.
Senza la soddisfazione di chi sa che il proprio sacrificio (la lontananza dai propri affetti) venga almeno compensata da un lavoro che consenta un sacrosanto reddito continuativo e fondamentale, sempre più spesso maturo la convinzione che il gioco non valga la candela.
Cazzarola, “che fatica essere uomini...”
Ma andiamo avanti con determinazione, avanti tutta.
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