Pochi giorni fa ricorreva la "festa dei nonni", una stupenda idea per celebrare quelle splendide creature della vita che dànno ai propri nipoti una forma di amore probabilmente anche "doppia" (essendo due volte genitori, mamma e papà dei tuoi mamma e papà ). Peccato che quando ero bambino io questa festa non esisteva ancora, o perlomeno io non ne ero assolutamente al corrente, a quei tempi: avrei voluto con piacere approfittare di un' occasione del genere per urlare tutto il mio amore ai miei carissimi vecchietti! Purtroppo, alcuni dei miei nonni vivevano lontano da me (io in Toscana, loro in Sicilia) e per questo li vedevo solamente una volta l' anno - massimo due - se venivano a passare il Natale qua in Versilia.
Ma l' occasione più bella e lunga per stare insieme era sicuramente d' estate. Qua, di seguito, vi voglio raccontare, per la prima volta in assoluto, come avveniva l' avventuroso viaggio verso la Sicilia per andare un paio di mesi in vacanza dai miei nonni materni! Buona lettura...
Chi ha avuto - e magari ha ancora adesso - la fortuna di avere i propri nonni in vita e vicino a sé, in cuor suo è sicuramente consapevole della enorme fortuna che gli è stata concessa dal destino.
Per quanto riguarda me, la storia è un po' più complicata (tanto per cambiare) ma fortunatamente ho avuto anch' io l' immensa gioia di poter conoscere ancora in vita, apprezzare, abbracciare ed amare i miei nonni, sia quelli paterni che quelli materni.
I genitori di mia madre vivevano in Sicilia, a Catania, ed a causa della considerevole distanza geografica da dove vivevo io (oltre 1200 chilometri da percorrere andando verso sud) me li potevo godere assai di rado, purtroppo: in genere un paio di volte all' anno e non di più.
Durante le vacanze estive - generalmente nei due mesi di luglio e agosto – io, mia madre e le mie sorelle (mio padre rinunciava, in quanto refrattario alle calde temperature estive siciliane) partivamo in viaggio alla volta della Sicilia: talvolta in aeroplano (quando eventuali sconti o offerte legate ai voli nazionali lo permettevano) ma, ahimè, la maggior parte delle volte in treno (decisamente l' opzione meno onerosa).
Un viaggio estenuante e lunghissimo, carichi di bagagli fino all' inverosimile: mi ricordo che una volta ne contai ben tredici, tra valige e borsoni che avevamo appresso.
Partivamo dalla stazioncina ferroviaria di Pietrasanta, che all' epoca era assai diversa da quella che si può ammirare al giorno d' oggi: più piccola, grigia e modesta (ma almeno i cessi erano funzionanti) ed il vecchio bar di quei tempi era situato diametralmente all' opposto rispetto alla posizione del locale attuale.
Inoltre, il grande sottopassaggio pedonale in calcestruzzo armato che al giorno d' oggi collega le piattaforme ed i marciapiedi situati lungo i binari.... non era stato ancora progettato, né tanto meno costruito. Stiamo parlando di oltre trent' anni fa e , all' epoca, chiunque fosse stato costretto a raggiungere il secondo o il terzo binario per prendere il proprio treno, questi si trovava nelle condizioni di rischiare la propria vita: non c' era infatti alternativa al pericolosissimo e potenzialmente fatale attraversamento dei binari... a cielo aperto, velocemente e con grande prudenza.
Non posso nascondere quanto la cosa mi inquietasse (anzi, mi spaventava proprio a morte), anche la possibilità solo teorica (?) di potere essere travolto, schiacciato e ridotto ad hamburger mi rendeva parecchio nervoso e pieno di ansia ogni qual volta affrontassi quella breve passerella di legno in mezzo ai binari. L' adrenalina mi scorreva a fiumi, in quei lunghissimi istanti in cui muovevo la mia testolina a destra e sinistra scrutando l' orizzonte per scorgere eventuali pericoli. Chiamatele pure paranoie, io invece lo chiamo “istinto di sopravvivenza”...
Ad ogni modo, una volta partiti da Pietrasanta, la prima tappa del nostro “pellegrinaggio” prevedeva l' arrivo alla grande stazione centrale di Pisa, una sosta di svariate ore per attendere la coincidenza per proseguire il nostro viaggio verso sud. Si trattava della celebre e rimpianta “Freccia del Sud”, il soprannome con cui veniva affettuosamente chiamato il mitico espresso “Torino Porta Nuova – Siracusa/ Palermo”, che ci avrebbe finalmente trasportati fino a destinazione, dagli amatissimi nonni.
Quel treno arrivava a Pisa intorno alle 21:30 e, dopo una lunga ed impaziente attesa seduti sulle proprie valigie - quando infine si riuscivano a distinguere con chiarezza i contorni e la sagoma all' orizzonte di quel benedetto convoglio – si scatenava un vero e proprio inferno sul marciapiede adiacente il binario. Delle scene che sembravano tratte dalle “Comiche” di Benny Hill !
Il motivo di quel pandemonio era costituito dal fatto che ogni viaggiatore in attesa del treno, alla vista della locomotiva in rapido avvicinamento, istintivamente afferrava i propri bagagli ed iniziava a correre all' impazzata come un bufalo inferocito: il rischio di farsi del male e di ferirsi seriamente era evidente, quanto la probabile eventualità di ritrovarsi con qualche frattura a causa di quella bolgia infernale.
Insomma, bisognava conquistarsi con la forza e con l' astuzia il diritto di salire sul treno e - tra calci, spintoni, spintoni, trattenute, sgambetti, gomitate ed altri colpi proibiti che rischiavano di farti scivolare per terra – se si era abbastanza competitivi da poter superare con successo quella ferocissima selezione naturale tra selvaggi vacanzieri senza scrupoli, beh... a quel punto il gioco era fatto!
Bisogna inoltre aggiungere che non era affatto facile prevedere dove la carrozza dove si trovavano i nostri posti prenotati, la composizione del treno sembrava affidata alla pura casualità: vedevi arrivare un treno lunghissimo, non sapevi dove diavolo fosse la tua carrozza – se in cima, in mezzo o in fondo – ed ogni volta speravi di scorgere il fatidico numero giusto, magari augurandoti anche che il treno interrompesse la sua corsa anche il più vicino possibile a te.
Alla fine, quando la dea bendata ci concedeva di raggiungere la porta d' accesso della carrozza giusta, il passaggio successivo sarebbe stato altrettanto impegnativo e difficile, al limite assoluto di ogni possibilità umana: bisognava ancora caricare a bordo la consistente mole di bagagli che ci accompagnava e, come già accennavo in precedenza, una volta ne avevo contato ben tredici (!) tra valigie e borsoni enormi al nostro seguito.
A questo punto devo aggiungere che, una volta, in occasione di uno di quei viaggi pazzeschi, riuscii addirittura a convincere mia madre a portarmi dietro un personalissimo bagaglio supplementare dal quale non intendevo assolutamente separarmi o lasciarlo a casa, nemmeno per un po'.
Si trattava del grande “Castello di Grayskull” dei “Masters of the Universe” (ero un fan sfegatato di quei giocattoli), un massiccio playset che mi era appena stato regalato per il mio compleanno pochi giorni addietro. Mi sarei fatto uccidere, piuttosto che lasciarlo due mesi in Toscana, senza poterci giocare.... Tanto più quell' imponente giocattolo, una volta piegato e racchiuso nella sua configurazione compatta, si trasformava in una specie di valigia in plastica rigida, con tanto di maniglia per trasportarlo comodamente.
E quindi fu così che in quell' occasione anche il Castello di Grayskull si fece una bella vacanza in Sicilia!
Tornando alle fatiche abituali del viaggio, una volta issati a bordo i bagagli (che sembravano pieni di incudini, àncore di navi mercantili e ferri da stiro, a giudicare dal loro considerevole peso), cominciava un' altra lotta con gli altri passeggeri, che erano impegnati nelle stesse identiche fatiche, sbuffando ed imprecando alla malasorte: in breve ti ritrovavi a percorrere lo stretto e lunghissimo corridoio interno della carrozza, per raggiungere lo scompartimento assegnato ed i posti prenotati.
Ovviamente, come potete immaginare, qua si rivedevano inevitabilmente altre scene fantozziane, con gente sovraccarica di bagagli fino all' inverosimile e che viene in direzione opposta alla tua, in rotta di collisione ! Il risultato era l' intasamento del corridoio, con l' unico passaggio bloccato a tempo indeterminato in cui parolacce, bestemmie e maledizioni in tutti i dialetti italiani impreziosivano questa atmosfera conviviale che si protraeva per lunghi, lunghissimi minuti in quella gabbia di matti.
Finalmente, quando le tue preghiere verso il padreterno raggiungevano il cielo e questi, commosso, ti concedeva la grazia di raggiungere il tuo sospiratissimo scompartimento, le forze erano ridotte al minimo storico e arrivavi con la lingua di fuori per via della fatica.
E proprio con l' energia ridotta in riserva, ti toccava rischiare l' osso del collo per mettere a posto tutte le valigie (come detto, enormi e pesantissime) sulle grandi mensole metalliche sporgenti collocate nella parte superiore dello scompartimento: cioè pericolosamente sopra le nostre teste.
Mah, non vi so dire con precisione quante volte io abbia trattenuto il fiato con ansia ed apprensione, assistendo alle acrobazie circensi di qualche poveretto adulto che si offriva volontariamente (un po' per spirito di cavalleria, un po' per misericordia) di darci una mano: con sprezzo del pericolo e con tanta insana incoscienza, si arrampicava come un gorilla fino alle mensole e, piano piano, infilava faticosamente i bagagli sulle suddette mensole.
Quando lo vedevi fare agli altri, ti sembrava pure una cosa semplice e banale da fare, ma poi realizzavi subito – e con orrore – che nella realtà dei fatti si trattava di imprese eroiche che valevano una medaglia al valor civile oppure, nel caso peggiore, un ricovero d' urgenza nel reparto di rianimazione dell' ospedale civile più vicino, come spesso e volentieri avveniva.
Finalmente arrivava il momento in cui si poteva tirare un sospiro di sollievo e concedersi un po' di meritatissimo riposo, sedendoci in quei benedetti sedili, sui quali avremmo passato almeno altre tredici ore di viaggio lungo la penisola italiana ed oltre...
Naturalmente, essendo già sera, l' interno dello scompartimento veniva rimodulato dal capotreno (o dal controllore, non ricordo bene) che, mediante l' uso esperto di una chiavetta metallica sagomata che aveva in dotazione solo lui, riusciva a sbloccare alcuni meccanismi collocati dietro all' imbottitura rigida dei sedili stessi: con poche e veloci manovre e movimenti, questi venivano spostati, ruotati ed inclinati fino a trasformarli nelle famigerate “cuccette”.
Queste ultime erano delle specie di dormitori provvisori, anche queste come mensole sporgenti che ricordavano quelle in cui riposano i marinai: piccoli e stretti giacigli che non offrivano i massimo del confort e della comodità, ma erano piuttosto dei sinistri “loculi” temporanei dove i passeggeri potevano distendersi, stiracchiarsi e dormire durante le ore notturne del lungo viaggio.
E qui, mi dovete credere, cominciava per me un altro incubo ad occhi aperti: tra i forti e sgradevoli odori (eufemismo) sprigionati dalla scarsa igiene personale della maggior parte dei viaggiatori di quell' epoca – spesso anche le scarpe abbandonate in basso sotto ai sedili diventavano delle “armi chimiche” vietate dalle Convenzioni di Ginevra – ed il terrificante fragore dei russatori seriali che ti logoravano il sistema nervoso centrale, è fin troppo evidente come quelle notti diventassero decisamente lunghissime, se non interminabili.
Per rendere meno penosa la notte, tiravo fuori il mio amico di plastica “He-Man”, armato fino ai denti e lo appoggiavo in un angolino del mio improvvisato giaciglio: un po' serviva a cacciare eventuali incubi notturni, ma soprattutto condivideva con me il peso di quelle notti infestate dai russatori cronici.... Tra una russata e l' altra, alla fine riuscivo a cadere addormentato per via dello sfinimento, facendomi cullare dal ritmico rumore metallico delle ruote d' acciaio che frustavano alla massima velocità la strada ferrata del binario.
Meno male che il sole del mattino giungeva rapidamente a confortarmi – interrompendo quella ritmica tortura assordante che era uno strazio assoluto, peggio di una tortura medievale – e mi ricordava che ben più di metà del viaggio era già stata percorso. Ancora qualche ora e qualche altro centinaio di chilometri e avrei potuto riabbracciare i miei cari, amatissimi nonni siciliani
L' estate ci sorrideva meravigliosamente, la gioia spensierata di quel viaggio verso i nostri affetti più cari ci faceva volare sulle ali dell' entusiasmo...!
Quando vedevi la costa calabra occidentale – dove la linea ferroviaria si distendeva parallelamente alle magnifiche spiagge di quel tratto incantato di terra – non potevi fare a meno di affacciarti all' esterno da uno dei finestroni del corridoio, sporgerti appena quel tanto che bastava per poter salutare fuori quelle decine e decine di bagnanti presenti sulla spiaggia sotto di noi. Il bello è che loro rispondevano sempre con grande cortesia al saluto, senza farsi pregare e sbracciandosi con grande energia per farsi vedere!
Eravamo tutti contenti per quel piacevolissimo, sfuggente, casualissimo incontro - letteralmente al volo - tra villeggianti e passeggeri in cui ci scambiavamo gli auguri di una buona vacanza per tutti.
Ma anche la stanchezza cominciava a farsi sentire dopo tutte quelle ore di viaggio, l' impazienza e la fatica rendevano micidiali le ultime ore del tragitto ancora da compiere. Giunti letteralmente in fondo alla penisola italiana, l' ultima stazione ferroviaria calabrese prima dell' imbarco sui traghetti diretti in Sicilia era quella di Villa San Giovanni (in provincia di Reggio Calabria) dove cominciava una lunghissima sosta. Passava un' ora, come minimo, durante la quale tutte le carrozze che componevano il treno venivano sganciate le une dalle altre e lentamente trasportate verso l' interno della nave.
Iniziava così la navigazione lungo la rotta magica e plurimillenaria che attraversava lo Stretto di Messina!
Che poi, essendo un braccio di mare esiguo (una distanza di 3-4 km tra la costa calabra e quella sicula), sapevi già che non dovevi attraversare l' Oceano Atlantico o circumnavigare il continente africano, ma il viaggio durava al massimo... una ventina di minuti !
Sì, giusto: la navigazione durava un terzo del tempo necessario a smontare il treno.... Piccoli paradossi ai quali finisci per abituarti col tempo.
Quante volte pensavo ai racconti dell' Odissea di Omero, sognando ad occhi aperti di rivedere le immagini descritte dal poema, nei versi in cui veniva narrata la vicenda del' incontro di Ulisse con Scilla e Cariddi, i mostri mitologici che - in base alla leggenda - infestavano proprio quelle acque.
Ovviamente, da quelle parte, questa storia era diventata anche “folklore”, al punto che anche uno dei traghetti ferroviari era stato battezzato “Scilla” ed il suo sinistro nome appariva a caratteri enormi sulla chiglia della nave...
Per Giove! A pensarci bene, considerando tutto quel lungo viaggio fatto fin lì ( e ancora da completare), la storia dello Stretto di Messina e la suggestione di Scilla e Cariddi, potevo immaginare a pieno titolo di essere un giovanissimo “Ulisse” che stava compiendo la sua impresa !
E va bene, miti e leggende a parte, ed eravamo appena sbarcati in Sicilia!
Per farla breve, appena sbarcati a Messina, il mio cuore si riempiva immediatamente di magica felicità, un torrente impetuoso di gioia dovuto alla immediata, tempestiva, istantanea presa di coscienza che l' abbraccio dei nonni era imminente!
Il treno avrebbe dovuto poi essere ovviamente riassemblato - una volta sbarcato in Sicilia - e “dimezzato”, ovvero parte delle carrozze venivano agganciate ad una locomotiva diretta verso Palermo, mentre le altre erano collegate ad una motrice che avrebbe viaggiato nella direzione opposta, verso Siracusa. Ma il più era fatto ! Stavamo arrivando...!
La parte più bella del viaggio diveniva l' attesa di quell' abbraccio dolcissimo, che già si sentiva nell' aria.... e concretamente ! Come descrivere altrimenti quel dolcissimo odore del mare (lo Ionio, stavolta, non più il Tirreno) che andava ad abbracciare l' essenza ed il profumo degli aranci in fiore, dei limoni, delle mandorle, dei fichi d' India che sporgevano dai poggi attraversati dalla strada ferrata e accompagnata da lunghi filari di erba bruciata dalla sete e dal caldo.
La sagoma imponente dell' Etna, maestosa e materna, incombeva sovrastandoci dalla sua altezza.
Ormai era un conto alla rovescia, l' ultima stazione prima dell' arrivo a Catania era quella di Acireale, ad appena una decina di chilometri dal capoluogo etneo.
A quel punto non riuscivo più a contenermi, l' emozione e la gioia si mescolavano in un estasi dei sensi che difficilmente si può spiegare con termini umani: come si può esprimere l' emozione di un bambino che sta per rivedere i suoi nonni – che vivevano a oltre milleduecento km di distanza - dopo un anno lunghissimo in cui li potevi sentire solo per telefono, in conversazioni brevissime per via del costo elevatissimo delle chiamate interurbane a quell' epoca?
Insomma, in un soffio di vento che durava nella realtà quel brevissimo tratto finale - ma che a me pareva infinito per via della stanchezza - si rivelava tutta l' attesa dolcissima di quell' abbraccio fisico che sognavo durante tutto l' anno, quel calore che sentivo dalla voce dall' altro capo del telefono finalmente sarebbe stata alla mia portata.
E finalmente.... Catania Centrale, ecco la stazione! Scendiamo faticosamente quei bagagli da incubo e poi li trasciniamo piano piano lungo il marciapiede, in attesa di scorgere nostri parenti, tra le tante facce... E poi... La gioia si materializza davanti a me, con la mia carissima nonna Maria a pochi metri da me sorridente! Getto via i miei bagagli senza pudore e corro ad abbracciare lei, prima di tutti gli altri parenti accorsi (nonno Diego, gli zii, etc.).
Eccomi, nonna. Il tuo piccolo “Ulisse” è arrivato....!
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